La macchina Usa del consenso.
Come si fabbricano i «professionals»
Intervista
a Jeff Schmidt raccolta da
Stefano
Sensi
«DISCIPLINED
MINDS», menti disciplinate. Un libro
che parla con intelligenza della condizione attuale dei «professionals»
americani. Una massa intellettuale
che svolge mansioni iper-specializzate ma assai poco gratificanti. Jeff Schmidt, laureato in fisica alla
University of California at Irvine, allievo del Premio Nobel Frederick
Reines, con umorismo, ma anche ferreo senso critico analizza il mondo del
lavoro «intellettuale» americano.
Schmidt punta il dito su un sistema educativo che, disastroso a
livello di scuola secondaria, diventa a livello universitario un formidabile
strumento per selezionare menti disciplinate, per produrre intellettuali
organici al sistema [Jeff confessa una passione per il nostro Gramsci].
Il
libro ha un incipit drammatico:
«Questo è un libro rubato».
Un
libro rubato, perché?
Ho
preso lo spunto dal famoso libro di Abbie Hoffman «Steal this book», ruba
questo libro. Volevo dimostrare come
ci si può riappropriare del proprio tempo, cominciando da quello speso sul
lavoro. Impegnandolo, cioè, in
attività realmente creative. Ho
scoperto, amaramente, che non è possible.
Sulla carta, la prestigiosa rivista «Physics Today», di cui sono stato
redattore per 19 anni, è paladina di un ambiente di lavoro informale, con
orari flessibili. Ciononostante
quando il direttore della rivista ha letto la frase che apre il libro, mi ha
licenziato in tronco. Ho scritto
questo libro invece che giocare al solitario o fare il surfing su internet,
nel tempo liberato dal lavoro. Ciò,
apparentemente, non è ammissibile.
Uno dei concetti chiave di questo libro è che il sistema controlla
minuziosamente gli aspetti politici del lavoro intellettuale. Ho ora scoperto che il controllo si
estende anche al tempo libero o meglio, liberato dal lavoro.
Chi
sono i «professionals»?
La
mia definizione è un po differente da quelle ufficiali del ministero del
lavoro o delle agenzie di censimento.
Mentre queste puntano sul livello di educazione, io ho focalizzato il mio
interesse sulle implicazioni politiche dell’operato dei «professionals». Sono lavoratori sì con un alto grado di
educazione, ma sono soprattutto i professionisti organici al sistema. Sono medici, avvocati, giornalisti,
insegnanti ma anche attori o ispettori di polizia per esempio. Quelle figure cioè che con le loro
decisioni avvallano il sistema perpetuando lo status quo.
La
percezione comune è che i «professionals», in quanto più istruiti, siano
anche più progressisti.
È
un’ incredibile mistificazione. In
effetti sono molto liberal su tematiche generali ed astratte. Quando li si tocca nel loro specifico,
cioè sulle implicazioni politiche delle loro attività professionali, il
discorso cambia. Faccio l’esempio del
medico «di sinistra» sempre pronto a scagliarsi contro l’ingiustizia del
sistema durante un cocktail party, ma che molto più raramente vedrai, nel
chiuso del suo ambulatorio, mettere seriamente in discussione i propri
rapporti gerarchici con pazienti ed infermieri, o il sistema sanitario americano.
Un
punto molto interessante del tuo libro riguarda l’accesso all’educazione,
cardine di quell’«upscale mobility», mobilità verso l’alto, che è il
fondamento dell’American Dream.
Nel
libro paragono il sistema americano ad uno di quei truffatori che fanno il
gioco delle tre carte nei mercati popolari.
Ti abbindolano per farti credere che la scelta della carta giusta sia
pressoché certa. Di fatto il numero
chiuso all’università opera una selezione fortissima. Non c’è posto per tutti, al contrario solo
pochissimi vengono selezionati: pensa al caso delle facoltà di medicina con
un posto ogni 17 mila abitanti. Una
selezione che mira a scegliere i più docili.
In
che maniera?
Attraverso
lo sproporzionato use di tests e l’atteggiamento fideistico nei confronti di
essi. Una delle più grosse
mistificazioni operata dal sistema è quella di proporli come «asettici»
strumenti di selezione dei piu’ preparati.
In realtà sono non solo fortememte «biased», parziali, per classe e
genere, ma strutturati in maniera tale da valutare, soprattutto, il grado di
potenziale subordinazione. Gli
studenti che passano, o, come preferisco dire, vengono fatti passare, sono
infatti quelli che più acriticamente si dimostrano propensi a studiare su
libri di quiz invece che sui libri di testo veri. Si è di fatto creata una situazione paradossale, per cui lo
studente, invece che essere incoraggiato ad utilizzare processi logici
induttivi e deduttivi, è praticamente indirizzato a memorizzare le risposte
esatte dei quiz.
Nel
libro, cito l’esempio di uno dei miei più brillanti compagni di studi che,
caparbiamente, tentò di superare un difficilissimo esame del dottorato di
fisica preparandosi sui libri di teoria, rifiutandosi, cioè, di umiliare la
propria intelligenza con lo studio delle risposte «precotte» dei quiz. Fu uno dei pochi a non passare l’esame.
Muovi
anche una critica alle linee di ricerca nell’università.
Si,
nonostante che nell’opinione pubblica prevalga il mito delle università come
centri in cui si promuove ricerca mossa solo da genuina curiosità
scientifica, di fatto il primum movens è il denaro. La maggior parte dei ricercatori è forzata a cercare fondi
statali o privati appiattendo i propri interessi scientifici su quelli che
sono gli interessi economici prevalenti.
I ricercatori continuano a vivere nella mistificazione di essere i
soli gestori del proprio tempo ed interesse scientifico. In realtà proprio per questo sistema di
finanziamenti che premia la profittabilità delle ricerche, i ricercatori sono
fortemente eterodiretti.
La
commistione di interessi economici e scientifici sembra molto più evidente
nel campo delle scienze bio-mediche e fisiche che non in quello umanista, è
così?
Il
condizionamento economico avviene anche nel campo umanista, ma in maniera più
sottile. La chiave in questo caso è
la sempre minore offerta di «tenured positions» [le nostre cattedre
«permanenti»]. E’ interessante notare
come ci sia nell’università americana, sempre più forte, la tendenza a
privilegiare «tenured positions» nelle scienze bio-mediche e fisiche, le
discipline cioè che generano profitto.
Al contrario, le discipline umanistiche son viste come una costosa e
forse inutile appendice, i cui costi sono da ridurre all’osso. Pullulano dunque gli incarichi a
contratto. Posizioni facilmente
ricattabili, in cui il licenziamento può avvenire da un giorno all’altro.
In
linea, dunque, con il mantra della «new economy», la flessibiltà. «Temporary workers» anche nel settore
educativo.
Flessibilità
nei confronti del mercato del lavoro, ma una flessibilità mentale,
anche. Alla rovescia però. Creare, cioè, una manodopera intellettuale
dalle forti conoscenze tecniche che non sia tuttavia in grado di percepire le
contraddizioni del sistema a dunque incapace di muovere una critica globale
al sistema di valori correnti. Docili
intellettuali-tecnici, usa a getta, da impiegarsi al bisogno. Se paragoni le tecniche di controllo che
vengono utilizzate da istituzioni totali come l’esercito e le pratiche
educative nell’università, scopri che vi è una forte analogia. Prendi, per esempio, il caso
dell’isolamento. Gli studenti vengono
sottoposti a carichi di lavoro sempre più imponenti. Ne risentono i contatti con l’esterno, che
diventano sempre più labili: meno tempo per frequentare amici e famiglia,
meno tempo per la lettura di libri e giornali.
Durante
il dottorato, per esempio, molte università vietano di lavorare. Questo divieto ha in effetti un forte
connotato politico. Non viene
proibito allo studente di lavorare tout court e gli vengono, infatti,
offerti lavori «on campus». Quelle
che vengono proibite sono le attività lavorative «off campus», il contatto,
cioè, con il reale mondo del lavoro.
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